SABATO SANTO - Processione della Addolorata

Quando rispunterà il sole, finalmente, giungerà il giorno dell’ anno: Sabato Santo, il giorno della Madonna, della processione, dei vattienti.
La mattina in paese, un po' alla volta, si riversa una grande folla. Macchine e pullman in sosta si sgranano per più di un chilometro oltre le prime case. Scendono dalle contrade, salgono dalla Marina, arrivano curiosi un po' da tutte le parti, fotografi , cine-operatori, cronisti, a volte qualche scuola, qualche gruppo di ricerca, qualche “team” culturale.
Quando l'Addolorata esce dalla chiesa al suono della Jone il gran giorno è ormai cominciato. La processione, così, si dipana, lenta, per le vie del paese. Il percorso iniziale è uguale a quello della sera precedente: dalla Chiesa dell'Annunziata a quella di S. Giovanni. Mentre la gente, tanta gente, continua ad affluire.
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La "poesia" , invece, resta quella di sempre, intatta. Visi che fanno capolino dai balconi, gente che si apre ai lati della strada per fare spazio alla banda che precede la Statua, persone che da lontano cercano, tra visi fitti, tra i segnali e le insegne, dietro le curve, a tutti gli incroci, lo spuntare di quel viso rivolto al cielo, di quelle mani, di quel mantello scuro, di quel corpo ferito adagiato sulle sue ginocchia. La Madonna ogni tanto devia, entra nei vicoli, si ferma davanti a qualche abitazione, i suoi occhi penetrano ogni porta, ogni fessura. La "poesia" è quella di sempre: lacrime nelle case a lutto, bambini che vengono alzati a toccarla per un contatto, una benedizione, una richiesta di protezione.
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Ma le emozioni non sono finite. Un altro cerimoniale, intanto, si sta svolgendo: il rito dei Vattienti.
In un locale, 'u catuoiu , già pronta, c’è una grossa pentola, 'a quadara. Acceso il fuoco, viene messa a bollire dell’ acqua con immerso un infuso di rosmarino, sostanza ad alto valore medicamentoso.
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Chi sarà vattente si spoglia degli abiti civili per indossarne altri del tutto particolari: un paio di pantaloni corti per lasciare libere le gambe, un maglione, in genere nero, un copricapo di tessuto nero, 'u mannile portato dalle donne noceresi in costume ed infine una corona di sparacogna, arbusto spinoso che cresce in luoghi ombrosi delle campagne noceresi, adagiata sul mannile. Fino agli anni trenta il mannile scendeva sul viso tanto da non farsi riconoscere.
Contemporaneamente si prepara anche colui che farà da acciomu, generalmente un bambino. Nudi i piedi, indossa solo un panno rosso che lo copre, partendo dalle ascelle, fino alla caviglia, lasciando scoperte le spalle e la parte alta del torace. In testa una corona di spine lunghe ed aguzze, spina santa.
Alle mani una croce di canna rivestita di stoffa, anch’ essa rossa. La croce simboleggia quella che venne offerta a Gesù, dopo essere stato schiaffeggiato e insultato.
Vengono disinfettati: il cardo, disco di sughero di dieci centimetri di diametro e tre di spessore, sul quale sono fissati con una colata di cera vergine tredici pezzi di vetro acuminati, lanze, simboleggianti Cristo e i dodici Apostoli; la rosa, altro disco di sughero delle stesse dimensioni, con un lato ben levigato.
Quando vattente ed acciomu hanno terminato la vestizione, vengono “uniti” l'uno all'altro da una cordicella: il vattente, in quel momento, dovrebbe rappresentare il mezzo di cui Gesù Cristo si serve per versare il proprio sangue a favore di chi dovrà avere (o ha già avuto) la grazia. Tutto ormai è pronto e si può cominciare. A piedi nudi si avvicina al recipiente dove sta l’infuso caldo, vi bagna le mani e incomincia a battere con veemenza i polpacci e le cosce, facendo uso anche della rosa per far meglio affluire il sangue.
Quando le gambe sono ben arrossate, è il momento del cardo. Ed ecco un primo colpo, poi un secondo, un terzo, sulla coscia, poi sul polpaccio, poi sull’altra gamba. Le lanze penetrano nella carne ed il sangue schizza via abbondantemente. Ormai, il vattente è pronto per uscire: con la rosa lascia l' impronta del suo sangue sul petto e sulle spalle dell' acciomu.
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Li accompagna un amico o un parente con una fiasca piena di vino usato per disinfettare le ferite ed evitare la coagulazione. Finita la preparazione, il flagellante, con le braccia incrociate e portando nella mano destra il cardo e nella sinistra la rosa, esce dopo essersi battuto sui gradini della propria casa, in segno di augurio e di prosperità. Lascia, con la rosa, le impronte di sangue sugli stipiti e sulla porta. Poi scappa, sempre seguito da una caterva di ragazzi e di giovani i quali gridano: “i vattienti, i vattienti”.
La grande giornata è ormai cominciata: si batte diverse volte, davanti ai sacrati delle chiese, alle icone votive, davanti a casa di parenti ed amici che si affrettano a versare vino sulle ferite esprimendo il loro coinvolgimento e partecipazione al rito, la rosata sullo stipite suggella il sentimento di stima e d' amicizia. Il momento più emozionante, però, è quando si flagella davanti all' Addolorata: la scorge da lontano, incomincia a forzare l’ andatura della corsa, la gente si “apre” in modo da lasciargli libero il passaggio, finalmente raggiunge Maria, s' inginocchia ai suoi piedi in segno di saluto e di fede, qualche volta prega, poi si rialza e si vatte violentemente.
S' inginocchia una seconda volta, rifà il segno della croce e ricomincia la sua corsa. E corre il vattente, e le orecchie avvertono nuovi rumori, le piante dei piedi sbattono al suolo. Corre e s' intrufola tra la gente che gli fa largo, lascia il passaggio. E campeggiano, da lontano, la croce rossa e i lembi al vento. E poi sono due, dieci, venti, e ancora vattienti. E tante croci. Solitarie o insieme.
Strade, vineddre e rughe ne sono invase. Corre il vattente, da un capo all'altro del paese (fadi u giru, si dice). E si ferma sui sagrati delle chiese e si vatte, si ferma davanti ‘a casa ‘e l' amici e si vatte, si ferma davanti ‘a casa di parienti e si vatte. E lo vedi correre per le discese, veloce, poi lo vedi affannato e stanco per le salite; si dirige verso il Convento, il punto più alto di tutto il paese: il rischio e la sfida.
Poi, però, di nuovo è discesa, e tutto è passato. Nel suo cammino, il vattente, almeno una volta deve incontrarsi con la Madonna. Ogni anno è così.
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Compiuto il percorso stabilito, fa ritorno a casa, lava le ferite con l' infuso di rosmarino, asciuga le gambe e si rimette in abiti civili. Nessuna cicatrice, nessun pericolo di infezione: restano soltanto i bucherelli prodotti dalle cardate che scompariranno dopo pochi giorni.
"...incredibile, ma vero, nessuna traccia di ferita appare sulle membra, certamente indolenzite, di costoro, e mai è stata registrata una magari insignificante infezione" scrive Luciano Rossi nel 1967.
Poi, il vattente, si butta anch’ egli nella folla dei fedeli in processione. Stavolta anonimo figurante. Si sente diverso, più buono, purificato, come scrollatosi di una lunga snervante attesa. Non ci sono commenti, tra lui e chi sa che ha appena espletato il rito. Solo un silenzio complice e, da parte dell’ osservatore, di assenso, di tacito complimento, quasi di ringraziamento per essere stato ancora una volta presente al richiamo della festa e della Madonna.
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Nel vivo del grande giorno: La Madonna giunta in Piazza San Giovanni, riceve gli onori dell' incenso dall' arciprete e visita il Sepolcro nella Chiesa Matrice. Poi, pian piano, si entra nel "vivo" della festa. Quando la Statua è in piazza, i vattienti aumentano e se ne cominciano a vedere in numero sempre maggiore.
La processione prosegue dalla Piazza e scende alla Motta, il rione più antico del paese. Poi risale per dirigersi in via S. Caterina. Ormai si va verso mezzogiorno, la cerimonia è nel pieno del suo svolgimento.
Durante ogni sosta la Statua viene adagiata su un tavolo, addobbato con 'u dummascu da devoti, i quali offrono ai portantini tipici dolci pasquali: buccunotti e cuzzupe. La gente affolla il lungo viale, non ci sono più ritardatari, ci sono proprio tutti: fedeli e curiosi, noceresi e forestieri, le strade sono intasate da una marea umana. Sul lungo viale si scorge nitida la figura della Madonna.
E le croci degli acciomi ormai sono tante: ognuna corre per conto suo, si incontrano, si sovrappongono, si allontanano.
La processione percorre via S. Caterina, fino al Calvario. Fino alla fine degli anni '60, nell'ordine processionale, subito dopo la banda, si poteva notare un lungo drappello di vurgineddre, ragazzine di 10-12 anni vestite di bianco (in genere con l'abito della Prima Comunione), una fascia nera a tracolla, la testa coperta da una tovaglia di lino che cadeva sulle spalle, in testa una leggera corona di spine adagiata sulla stessa tovaglia. Erano l' immagine del candore e dell'anima senza peccato, in lutto per la morte di Gesù.
Il Calvario, alla base, è tutto inondato di sangue. Vattienti sono passati a frotte e lì si sono battuti. Consuetudine ormai consolidata. E vicino alle croci, in alto, l' impronta della rosata, col sangue che sgocciola e s' irradia come da un piccolo sole di colore rosso.
Alla sommità della collina: La Madonna ripercorre all'indietro il lungo viale, fin quasi all'inizio. Ara Vota di Ventura inizia la lunga salita verso 'i Capuccini. Strada irta, impervia, e sconnessa. Le donne cominciano la recita del Rosario che, intercalato dai canti in dialetto, durerà per tutta la fase centrale della processione. E' quasi come se si chiudesse una fase per cominciarne un'altra. Lo sforzo inumano dei portantini, costretti a terribili contorsioni, il loro fiato rotto dalla fatica, sofferenze appena sussurrate, qui la processione diventa penitenza e mortificazione. E se lo sguardo cade alle porte, al terreno e al selciato, alle strade e ai pavimenti, quanti vattienti che sono passati!
Ed ecco la sommità della collina. E' l' approdo, il riposo. I nervi che si distendono. I cuori che si calmano. I respiri che si ricompongono. Alla sommità del colle, i fratelli si ristorano all'interno del vecchio Convento. Nessuna tavola imbandita, ma del buon cucinato che affiora da qualche cannistra. La Statua, adagiata fuori dal Convento su un tavolino, è avvicinata, toccata, baciata. Molti fedeli approfittano per farsi ritrarre, per una foto da conservare tra le cose preziose di ognuno.
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Verso il ritorno: Poi comincia la discesa verso il paese. Nei pressi di Pizzu Cacatu ,uno sperone di roccia, l' Addolorata viene adagiata su un tavolino. Alle sue spalle viene messa la grande Croce nera. Quella che non aveva mai visto. Significa l' incontro con Suo Figlio, sul Calvario. La processione riprende, scende a valle come un fiume, ma sempre lentamente. Le donne intonano i cupi canti dialettali ('u liogiu du Segnure e 'a Morte de Gesù).
E la discesa è come un sollievo per la fatica, tanta, che si è ormai incuneata nelle membra di tutti. Visita il sepolcro della Chiesa di S. Francesco e prosegue per la via principale dove avverrà l' ultima sosta: aru Canale. Si passa davanti alla Caserma, la Madonna si volta, si ferma, i Carabinieri rigidi sulla scalinata con le mani lungo i fianchi, qualcuno scorge nel bozzetto la Grazia Divina e la difesa degli umani. Ad un segnale convenuto, una voce intima l’ “Attenti”, la gente catturata che fa ressa a guardarli, poi la stessa voce chiama il “Riposo”: tutti si sciolgono in un applauso. Dopo il saluto, rimangono pochi metri, fino alla chiesa da dove il mattino si era partiti.
Ormai è pomeriggio inoltrato. La gente si accalca davanti alla chiesa per avere un ultimo sguardo, la Statua viene adagiata su un tavolino, rivolta verso la chiesa. Ecco il sacerdote sui gradini, un tempo si affacciava dal balcone posto sul portale.
E' l'ultimo atto, un grazie dal cuore, un' invocazione, un inno. Una volta si usava far venire un predicatore da fuori, spesso un monaco. Che impeto, certe parole. Che enfasi! Dopo la breve predica, è ormai giunto il momento del rientro. I fratelli rialzano la Madonna dal tavolino, la banda intona la Jone, si protendono le ultime mani, si scorgono gli ultimi sguardi, gli ultimi sommessi pianti, balenano ricordi di visi e di nomi, si cercano tra la folla volti che non appariranno mai più, se non nella nostra mente, si fa la conta di quanti eravamo, quanti siamo e quanti saremo, un altro anno è passato e un altro andrà via.
L' Addolorata risale i suoi scalini, la sua nicchia l' aspetta, i fratelli sono agli ultimi sforzi, nella piazza è solo silenzio e la Jone, la Madonna entra, sparisce nel buio, la porta si chiude. E' tutto finito.
L' odore acre del vino e le tracce di sangue resteranno fino alla prossima acqua. Solo l' immagine di qualche foto ricorda 'u buttigliune: un' enorme fiasca in cui venivano raccolti i liquori, in genere anice, che durante il percorso venivano offerti ai fratelli e alla Madonna per voto. La miscela di gusti ed aromi vari veniva divisa , alla fine della festa, tra tutti i portantini.
Le funzioni, però, non sono ancora terminate del tutto, infatti la sera, iniziando la Veglia Pasquale, si svolge la cerimonia della benedizione del fuoco. Un braciere arde davanti alla Chiesa di San Giovanni e il sacerdote procede con il rito: benedice il fuoco, simbolo della vita, simbolo di luce, la luce di Cristo.
La notte del Sabato Santo è la notte della Vita, dell'Amore, della Pace. Cristo è risorto.
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- Testo tratto dal libro "Oje è vennere Santu ..." a cura di Antonio & Giovanni Mendicino.
- Foto tratte dal sito http://www.noceraterinese.com .
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Esprimo il mio doveroso e sentito ringraziamento al carissimo amico "vattiente" Vito Curcio per la costante fornitura di materiale documentale sulla Settimana Santa di Nocera Terinese.